Ricettario del Malcantone. L'evoluzione del sistema alimentare e i cambiamenti culturali

Ricettario del Malcantone. L'evoluzione del sistema alimentare e i cambiamenti culturali

Fino a poco tempo fa, la popolazione della nostra regione, e l’umanità in generale, si nutriva con quello che poteva. Solo da poco più di un secolo, la maggior parte della popolazione dell’Occidente può scegliere cosa mangiare, e non è più costretta a nutrirsi con quello che la terra è in grado di produrre.

L’approccio nostalgico tende a esaltare le virtù degli alimenti che si rifanno a un passato romantico. In realtà l’alimentazione era sovente povera e le ricette non erano necessariamente delle prelibatezze. Nei resoconti del secolo scorso risaltano ricette a base di animali che oggi non è più consuetudine cuocere per i propri bisogni, come gatti, allodole, tordi, beccacce, marmotte, tassi,… Senza contare la presenza di ricette a base di “scarti”, come reni, polmoni e altre frattaglie. Ma come dice Luigi Franconi, ne “Il nuovo cuoco ticinese economico” del 1846, “Il miglior cuoco, diceva quel gran filosofo di Socrate, è un buon appetito acquistato al passeggio, all'aria aperta. E aveva ragione, e l'ho provato anch'io quand'era giovane, che dopo una buona sgambettata per le montagne, il pan di cruschellomi pareva zuccaro, e l'acqua del rigagnolo il nettare degli Dei”.

La cucina regionale e il retaggio agro-alimentare del passato sono dei temi che negli ultimi anni hanno assunto una grande visibilità, in relazione alla valorizzazione del territorio e delle sue risorse turistiche e culturali. In questo senso il cibo è diventato una chiave di lettura rilevante che testimonia i rapidi cambiamenti all’interno della società.

L’evoluzione che possiamo osservare in questi ultimi decenni è particolarmente significativa e ricca di spunti, grazie soprattutto alla cosiddetta globalizzazione. Anche in ambito alimentare, questo fenomeno viene spesso chiamato in causa per descrivere e analizzare i cambiamenti nelle culture alimentari. Il ruolo guida in questi anni lo hanno svolto gli Stati Uniti. Spesso criticati, ma furieri di novità che hanno rapidamente conquistato i gusti delle popolazioni mondiali, diffondono nel mondo prodotti di ampio consumo quali la Coca Cola o il fast-food.

In questo contesto globale, i cambiamenti nella società e nella cultura culinaria sono rapidi, anche se spesso non ne siamo pienamente coscienti. Rapiti dal nostro vissuto quotidiano, difficilmente notiamo le differenze che intercorrono anche nel breve arco di 10 anni. Eppure, se ci fermiamo a riflettere un attimo, possiamo essere sorpresi dalla quantità e dall’importanza dei cambiamenti che viviamo costantemente.

Un esempio ce lo offre la catena di ristoranti Mac Donald’s, che oggi rappresenta un indiscutibile punto di riferimento nella simbologia dell’alimentazione del XX secolo. Anche se oggi può sembrare strano, soprattutto ai più giovani, fino al 27 dicembre 1993 la popolazione del Cantone Ticino non aveva a disposizione le patatine e gli hamburger offerti Mac Donald’s. Risale infatti a tale data l’apertura a Coldrerio del primo locale della famosa catena.

Un altro esempio che testimonia i rapidi cambiamenti intercorsi negli ultimi anni è l’evoluzione della tipologia di prodotti alimentari venduti dai grandi distributori quali Coop e Migros. Solo fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile poter disporre di una gamma di prodotti così ampia, costituita da generi provenienti da ogni angolo del pianeta.

La cucina offre in questo senso un ottimo ambito di studio, interessante a diversi livelli di lettura. Possiamo ad esempio osservare l’evoluzione degli utensili utilizzati, i materiali, le tecniche, le materie prime, o i cibi. Ma possiamo anche soffermarci su aspetti come la ristorazione, la produzione e la diffusione di generi alimentari, l’agricoltura o l’allevamento.

Roland Hochstrasser, Museo del Malcantone, 2016

 

A tavola non si deve andare imbronciati, non si deve parlare di affari né di cose che addolorano. Non si deve rimproverare i bambini a tavola, ma bisogna lasciarli mangiare in pace. Si deve invece essere di buon umore perché l’allegria è il  miglior condimento e il miglior digestivo. (Le ricette della nonna, 1958)

Il miglior cuoco, diceva quel gran filosofo di Socrate, è un buon appetito acquistato al passeggio, all'aria eprta. E aveva ragione, e l'ho provato anch'io quand'era giovane, che dopo una buona sgambettata per le montagne, il pan di cruschellomi pareva zuccaro, e l'acqua del rigagnolo il nettare degli Dei. Pur mi ricordo, che quando trovava qualche cosa di buono e di ben fatto, lasciava il resto e ci dava dentro a corpo perduto; e non ho mai fatto la bestialità di lasciare uno squisito arrosto per attacarmi ad una insipida polenta. Sicchè m'è nata e cresciuta in corpo questa persuasione, che se ogni cibo piace a chi ha fame, ben preparato e cucinato piace due volte. E il piacere poi non è mica una cosa da lasciarsi da parte in questo mondo, dove tre quarti delle azioni, anzi tutte, si fanno appunto per trovarvi gusto. D'altra parte quei stomacuzzi, che oggidì son tanti, i quali pare abbian fatto divorzio coll'appetito, hanno bisogno di esser aiutati, solleticati; ed è giusto che persone caritatevoli, come i cuochi, pensino anche per loro. (Luigi Franconi, Il nuovo cuoco ticinese)

Il frumento, il grano-turco, il miglio, il panico, gli ortaggi sono molto coltivati nei piani della regione inferiore: e in mezzo a tutte queste colture sono gelsi, peschi, fichi, viti, prugni, e talora mandorli e melagrani, e nei giardini magnolie, cedri, cipressi, allori, olivi. Nella regione inferiore è pure abbondante la vite coltivata sui terrazzi artificiali disposti a guisa di lunghe gradinate che si inerpicano sui dorsi dei colli. Nei villaggi più elevati (Arosio 867 m., Fescoggia 840 m., Breno 802 m., Cademario 785 m.) sono ancora coltivati segale e patate ed alcuni ortaggi. La vite, il gelso, il fico, il pesco sono qui ancora ma soltanto nelle vicinanze delle case. Invece abbondano anche quassù gli alberi fruttiferi più comuni, peri, meli, ciliegi; e nei giardini ergono ancora le frondi belle e verdeggianti l’alloro e il lauro ceraso. Fuori dei campi e dei vigneti si stende maestosa e magnifica la selva castanile. Dal piano fin verso 1000 metri di altitudine il castagno è numerosissimo. Esso troneggia intorno ai prati ed ai campi, sui cigli delle valli, lungo i sentieri, intorno ai casolari ed alle cascine sparsesulle chine dei monti. Esso forma corona alla maggior parte dei villaggi, ravvolgendoli in un ambiente pittoresco ed in verzura fresca e salubre. Sopratutto da 500 a 900 m. sul mare, ove le colture agricole sono assai ridotte, esso si stende in magnifiche selve secolari che sono la nota più caratteristica e gradevole della regione. (Guida storico descrittiva del Malcantone e della bassa valle del Vedeggio, 1911)

La peschiera è formata di una lunga diga costruita con forti pali intramezzati di fascine e della epschiera propriamente detta, specie di conca perforata, ove convergono le anguille che provengono dal lago. Ad una estremità, in aperture apporite esistenti sul fondo e che si possono variare di posto a seconda dell’altezza dell’acqua, vengono collocate delle reti a sacco, chiamate volgarmente guade.

Le anguille vanno a finire nelle reti e da queste i pescatori le levano subito affinchè la corrente troppo forte non le uccida.

Le due peschiere della Madonna del Piano distano di un Km. Circa l’una dall’altra. L’esercizio di questo sistema di pesca data da quattro secoli e più ed è sempre stato rimunerativo. La pesca delle anguille si fa di notte; di queste, le più oscure e burrascose sono le più propizie. La rendita varia da anno ad anno, da stagione a stagione: da un minimo di pochi Kg. Per notte si è arrivati, specialmente in autunno, al quintale e più. Famosa è la pesca fatta pochi anni fa dal noto Luigione, il quale, in cinque notti, riuscì a catturare nientemeno che 7 quintali di anguille.

La peschiera maggiore appartiene ai signori De Stoppani, Bella, Azzi e C., i quali l’affittano a pescatori professionisti.

Vicino alla peschiera è stata costruita una casupola ove si ricoverano i pescatori, i curiosi che vogliono assistere alla presa e gli amatori che vogliono gustare sul posto lo squisitissimo pesce. (Guida storico descrittiva del Malcantone e della bassa valle del Vedeggio, 1911)

Vi sono due generi di campi; l’uno dà solo cereali e come alberi ha soltanto dei gelsi, piantati ai margini e lungo le strade: lo si chiama ‘campo scoperto’. L’altro tipo è occupato da viti, i cui tralci sono riuniti in festoni e ombreggiano leggermente il campo stesso, il quale è detto ‘campo vignato’. (...) L’altro genere di campi sono i ‘campi vignati’, che sono coltivati in parte a viti. Per farsene un’idea, ci si figuri un campo quadrangolare, oblungo, in cui sono piantate 3 o 4 file di aceri, in dialetto detti rombi, (...) Questi tronchi alti da sei a otto piedi sono i sostegni delle viti, piantate nel campo a ridosso di questi aceri. (...) Tra i filari il campo viene arato, e in mezzo alla linea delle viti il terreno viene zappato per seminarvi il grano; si coltiva quindi il campo nei modi già descritti, a grano e poi a colture minute, esattamente come il campo scoperto. (...)

Vi è però un terzo genere di poderi. In cui si coltivano nel contempo frumento, grano minuto, vite ed erba; ciò avviene soprattutto nei cosiddetti ‘luoghi’, che di solito si trovano sui fianchi dei monti e appartengono a persone che nei loro pochi fondi preferiscono coltivare ogni genere di piante, sfruttando la fertilità del clima. Questi terreni sono terrazzati; sulle parti in pendio o ai margini delle terrazze cresce l’erba, che a suo tempo viene tagliata due volte con la falce ed essiccata. Sulle superfici pianeggianti vi sono delle pergole, sostenute o dagli aceri nel modo descritto, cioè da sostegni vivi, oppure appoggiate a ringhiere o tralicci di legno morto, o ancora coltivate ad alberello singolo, con viti più piccole. Tra tutti questi tipi di vite si coltiva frumento, dove le terrazze sono larghe, e panico, miglio o anche granoturco, dove sono più strette. Tutte queste colture maturano a tempo debito, fornendo un utile considerevole, che si aggiunge a quello delle viti.

Inoltre si coltiva la vite anche sulle cosiddette ‘colline’ (chiamate anche ‘ronchi’) non terrazzate, che si estendono lungo il versante meridionale delle montagne, là dove queste sono erte e rocciose. (...)

Infine si coltiva pure molta vite nelle pergole poste lungo le strade, sospese sopra di esse a ombreggiarle piacevolmente, o in quelle che servono a coprire i viali delle tenute (e sono dette anche ‘toppie’); esse infatti si trovano in luoghi fertili e sono ben concimate. (...)

Nel territorio di Lugano e anche sulle alture di Locarno e in Valmaggia sono più diffuse le viti sostenute con legno morto o con pali, ma ovunque vi sono ‘toppie’.

Gli italiani potrebbero produrre del vino pregiato ed eccellente, molto più di quello che ottengono attualmente, se lasciassero maturare completamente le uve, invece di raccoglierle troppo presto per il solo fatto che, appena divenute commestibili, non sono più sicure dai furti; perciò ci si vede costretti a raccoglierle prima del tempo. Soltanto nelle proprietà cinte da muri è possibile lasciarle maturare più a lungo.

Le varietà più comuni di uva nera sono la botagera, la spanna, la regina, la velmasina, l’ostana, la rossera, la bondola, la parsemina. (Viticoltura – Hans Rudolf Schinz, 1770)

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